Solennità di San Giuseppe 2018

Omelia del Card. Gianfranco Ravasi

Inizieremo questa riflessione, prima di rivolgerci all’ascolto della Parola, allo spezzare il pane e bere il calice dell’Eucarestia, con un saluto reciproco che rivolgiamo soprattutto a quest’Accademia. L’Accademia che ha qui in questo luogo la sua sede primigenia, che ha nel suo emblema e che qui è rappresentata da alcuni accademici e dal loro presidente, il prof. Pio Baldi. Naturalmente, proprio questo spazio sacro già nell’antichità è il luogo emblematico per ricordare ciò che è l’arte. L’arte di sua natura da una parte è dialogo continuo, dialogo tra le culture, nel tentativo di passare oltre la superficie della storia e tentare di raggiungere l’Eterno e Infinito.

Pensiamo che cosa significhi questo dialogo qui, tra la classicità romana che è partita proprio qui in occasione dell’erezione di questo tempio, attorno al ventennio antecedente alla nascita di Cristo. Con il genero di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa che inizia l’avventura di questo tempio, che sarà come un corpo vivente ferito, ricomposto, guarito, trasformato, ma che, soprattutto, dialogherà molto con il mondo cristiano, che qui avrà una sua sede, con una sua propria testimonianza. Tanto è vero, che lo stesso patrono di questa Accademia, che anche oggi ricordiamo, San Giuseppe, è qui nell’interno di questo tempio in una sua cappella, che è la cappella ideale dell’Accademia dei Virtuosi, dove appunto la figura di Giuseppe in realtà è una statua pagana, che è stata segnata dal crisma della cristianità. Ecco, il dialogo deve essere fondamentale. E lo è anche attraverso la molteplicità delle espressioni artistiche, perché l’Accademia dei Virtuosi al Pantheon ha tutto l’arcobaleno delle discipline artistiche. Non per nulla abbiamo qui anche la presenza del coro. Io direi che idealmente questo coro, attraverso il suo Maestro artefice Mons. Frisina, che è membro dell’Accademia, è in qualche modo anch’esso ormai parte dell’Accademia. Perché ci accompagna, testimoniando che le vie attraverso le quali l’arte raggiunge, appunto, l’Eterno e Infino, il Trascendente, il senso ultimo dell’essere e dell’esistere è molteplice e questa via ha certamente ha nella musica uno dei percorsi fondamentali, fondamentali anche per la liturgia.

Questo era il saluto. Era lo sguardo, gli occhi negli occhi reciproco che la comunità fa anche attraverso l’incontro. Non per nulla nell’Antico Testamento, il Santuario, il tempio mobile nel deserto, la Tenda dell’Alleanza e poi il Tempio di Sion in Gerusalemme veniva chiamato in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè la “tenda dell’incontro”. L’incontro di un popolo, ma, in questo secondo momento della nostra riflessione, l’incontro anche con Dio, che scende dall’Eterno, dall’Infinito, per incontrare colore che sono ancora nel tempo e nello spazio. Non per nulla quando Salomone consacra il Tempio, canta il suo stupore “tu o Dio che non puoi essere contenuto dai cieli e dai cieli dei cieli, come puoi essere qui con noi?” Ed è questo il mistero e il segno del Tempio.

Ma, naturalmente, in questo incontro con Dio c’è l’incontro con la sua Parola che abbiamo ascoltato. Io vorrei proporvi soltanto due riflessioni brevi.

Da un lato la figura di Giuseppe è legata ad una parola. Una parola che peraltro ricorre anche direttamente o indirettamente nelle altre due Letture: è la parola padre. Una delle parole fondamentali nella storia dell’umanità, accanto alla madre che genera.

Noi abbiamo tre padri che entrano in scena nelle Letture che sono state proclamate nell’interno di questo tempio, sontuoso e glorioso. Prima di tutto Abramo: per tre volte si dice che era “padre”, padre di tutti i credenti. Come ripete San Paolo, “padre nella fede”. Ecco la prima paternità, la paternità spirituale di tutti i credenti, che hanno in questa figura la capacità anche di riassumere le divisioni che l’umanità crea. I figli che si dividono. Non è forse vero che le tre religioni monoteistiche che ora sono divise fra di loro, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam sono chiamate religioni abramitiche? Perché tutte e tre risalgono a questa paternità. La paternità spirituale, la paternità della fede.

Poi la divisione frantuma questa famiglia, ma la radice Abramo continua a ricordare siate tutti figli di Dio, perché siete tutti figli di Dio, dello stesso Padre.

Seconda patenità è quella di Davide. Quell’annuncio che gli fa il profeta Nathan: “Da lui scenderà una dinastia, una discendenza”. La discendenza nasce da una paternità. E sappiamo che questa paternità e questa discendenza hanno una caratteristica particolare: è la discendenza messianica. Quella che è ricordata nella pagina precedente a quella che abbiamo letto nel Vangelo di Matteo, quando Matteo stesso costruisce la genealogia di Gesù. E la ritma su tre anelli di quattordici personaggi. Ora, probabilmente, oltre ad essere il numero perfetto – 14, due volte sette – è anche la somma per la simbolica dei numeri molto cara all’Oriente, il riassunto del valore numerico delle tre lettere fondamentali consonanti che stanno alla base della parola Davide. Sono tre lettere ebraiche che hanno il valore di 4-6-4.

E allora vedete, abbiamo Cristo che arriva al termine di questa discendenza. È la discendenza messianica. Abbiamo una paternità in Davide, che è la paternità che attraversa la storia ed è la paternità della Salvezza.

Una paternità che si conclude con il terzo padre, che è Giuseppe, il padre legale, ufficiale di Gesù. Quello che è registrato nelle anagrafi, quello che appartiene alla storia, perché in Cristo si compie il mistero della vita.

Ed ecco allora che i tre padri, tra di loro tutti si incontrano e idealmente hanno l’indice puntato verso Colui che arriva alla fine, Cristo.

Cristo è il cuore, ultimo di queste tre paternità. Nella Fede, nella Salvezza e, alla fine, nella presentazione al mondo di Cristo, il Figlio di Dio, chiamato anche figlio di Giuseppe.

E la seconda e ultima riflessione con la quale concludiamo è invece direttamente puntata sul volto di Giuseppe. Un volto che come sapete è stato nella storia dell’arte ininterrottamente riproposto con una deviazione legata al fatto che lo si considerava una persona anziana. Noi non abbiamo alcuna indicazione su di lui, ma, ancor più, non abbiamo nessuna sua parola. È presente soltanto perché Matteo si ricorda di lui nei primi due capitoli, cioè nella sua funzione di padre legale di Gesù. Anche nel momento drammatico della fuga in Egitto, la strage degli Innocenti, il ritorno della quotidianità nascosta e in un lavoro modesto come quello del carpentiere in un villaggio ignoto a tutte le Scritture, Nazareth.

Ecco vedete, Giuseppe è in certo senso la figura di tutti coloro che sanno stare al loro posto, che sono consapevoli di essere chiamati ad avere una grande funzione anche se sono nell’interno di un orizzonte minimo.

Nella tradizione giudaica si dice che l’umanità è come se fosse un grande mosaico. Alcuni hanno delle tessere colorate e importanti. Pensiamo a colui che nel mosaico deve rappresentare l’occhio del personaggio fondamentale. Pensiamo che cosa significhi coloro che devono rappresentare il volto. Ma sono importatanti anche tutte le tessere colorate del fondale. Pensate se dovessero cadere: rimarrebbe solo – come accade qualche volta negli antichi mosaici – una figura incompleta. Ecco perché è importante che ognuno sia consapevole del suo posto, non cerchi sgomitando in tutti i modi di averne un altro. Concepisca correttamente la sua vocazione e sia orgoglioso, glorioso, anche se la sua vita si consuma soltanto nell’interno dello spazio di un appartamento, come madre, come padre. Come è accaduto a tutti e due i genitori di Gesù, che sono vissuti sempre nascosti, persino Maria, secondari quasi nell’avventura e nella vicenda grandiosa del loro Figlio.

Queste erano le due riflessioni sulla paternità e sulla vocazione di ciascuno.

Ebbene facciamo in modo che Giuseppe s’affacci anche oggi su questa comunità particolare e continui a ricordare che la bellezza non si manifesta necessariamente nella grandezza. La bellezza si manifesta nella fedeltà silenziosa, paziente, quotidiana. Nella creatività che ognuno ha ricevuto come dono attraverso le molteplici rappresentazioni della creazione artistica o attraverso le molteplici rappresentazione della ricchezza dei sentimenti, dei pensieri, delle emozioni, dei cuori.