Solennità di San Giuseppe 2022

Omelia del Card. Gianfranco Ravasi

In questa liturgia vorrei idealmente far passare d avanti i vostri occhi tre volti diversi. Sono volti che naturalmente emergono anche dall’interno di queste Letture che abbiamo ascoltato nella Parola di Dio. Letture che sono particolarmente ricche e complesse.

Vorrei innanzitutto preservarvi il primo volto, il primo profilo, che è, potremmo dire, contestuale a questa celebrazione: è la figura di Giuseppe. Naturalmente con un legame particolare all’Accademia dei Virtuosi al Pantheon che lo hanno come protettore patrono e che lo celebrano proprio in questa giornata. Per la sua figura io vorrei soltanto ricordare, per loro in particolare ma per tutti noi che siamo qui, una definizione che si trova nell’interno dei Vangeli. La sua figura, come sapete, è una figura sostanzialmente assente. Solo all’inizio appare, negli esordi della vita di quel figlio di cui è padre legale, Gesù. Poi egli scompare dalla scena. Ma ad un certo momento quando questo figlio è cresciuto i cittadini di Nazareth danno una definizione di questo suo padre particolare. E nel greco dei Vangeli è téktōn, che è probabilmente una traduzione di un vocabolo ebraico aramaico che dice molto di più di quanto noi siamo abituati a sentire nella traduzione dei Vangeli. Il vocabolo aramaico naggarà significa da una parte sia "artigiano", se si vuole anche falegname. Ma vuol dire anche artefice, artista. Per cui idealmente si può comprendere come possa essere anche patrono di questa particolare comunità. E come possa esserlo anche idealmente di tutti gli artisti ivi compreso il coro che attraverso il canto e la musica costituisce uno dei fondamenti della liturgia stessa. Ecco la sua figura, perciò, questa figura silenziosa che però presenta le sue mani. Le mani che operano, che creano. E che creano attraverso la fantasia dell’artista. Ma al tempo stesso il suo volto lo guardiamo in questa liturgia non solo per gli Accademici per i quali oggi poi sono stati proclamati ufficialmente i nuovi accademici che entreranno nell’interno di questa Accademia, come ricorderà alla fine il loro presidente, il prof. Pio Baldi. Ma lo vogliamo proporre a tutti anche perché è la figura di una paternità particolare. Vive l’esperienza di cui siamo testimoni in questi giorni attraverso le immagini insanguinate che ci vengono presentate dall’Ucraina. I padri che provano che cosa vuol dire lo staccarsi dai figli oppure con i figli avviarsi, come fa Giuseppe, lungo la strada del profugo. Lungo percorsi, verso strade, verso paesi e territori ignoti. Ecco, Giuseppe perciò vicino a noi con questi due lineamenti del suo volto: artista e povero, artigiano operatore e uomo anche della prova, del dolore.

Secondo volto che vorrei evocare: anche qui prendo solo un particolare dall’interno del brano di Luca che è molto più complesso di quanto a prima vista può apparire. È una figura che emerge. Voi avete sentito che Gesù prende lo spunto da due fatti di cronaca nera del suo tempo: da un lato di questa torre, la Torre di Sìloe che provoca la morte di diciotto persone. Probabilmente anche persone semplici che stavano attingendo acqua o lavandaie. La piscina di Siloe era l’unica fontana fondamentale, decisiva della vita di una città posta su un monte come è Gerusalemme, a 800 metri. Ebbene, noi prendiamo invece il volto dell’altra figura. Gesù ricorda dopo aver ascoltato quanto gli hanno narrato il fatto di quei Galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Noi di Pilato abbiamo le informazioni dei Vangeli. Abbiamo il suo nome scritto sull’epigrafe che è stata ritrovata da archeologi italiani sessant’anni fa a Cesarea marittima, sulla costa mediterranea in Terrasanta. E poi sappiamo anche da altre informazioni – comprese quelle di un personaggio importante, un filosofo giudeo di Alessandria d’Egitto di nome Filone – che era un uomo di una durezza implacabile. Era un romano rigido. Era un romano che probabilmente non aveva accettato con piacere di essere relegato in questa lontana provincia dell’impero, con una popolazione così aspra, così consapevole della sua dignità. Così desiderosa della sua libertà. Per cui cercava in tutti i modi di soffocare, di provocare persino. Come quando fa entrare nel tempio gli stendardi imperiali, violando la sacralità del tempio di Sion. Ecco, qui abbiamo un altro volto. Se prima in Giuseppe avevamo il volto della vittima, qui abbiamo il volto del potere, della violenza del potere. Di cui siamo testimoni anche nei nostri giorni attraverso questa guerra assurda. È proprio l’arroganza del potere che è incarnata bene da questo funzionario marginale dell’impero romano. Ma che nei nostri giorni si presenta ancora con tutta la sua durezza. E qualche volta anche persino con la capacità per certi versi ipocrita di poterlo giustificare: lui lo faceva per l’ordine per romano. Ora lo si fa persino citando in una forma di retorica quasi blasfema le parole di Cristo per giustificare la violenza del potere.

Quindi oggi la figura di Pilato è ancora attuale. È il volto di tutte le prevaricazioni: non solo quelle grandi come quelle che vediamo ora, ma anche quelle che noi sperimentiamo ogni giorno nell’interno della nostra quotidianità. E forse anche dentro di noi certe volte si annida si ramifica la mano gelida dell’odio, del desiderio di prevalere o comunque l’incapacità di tenere a freno quello che uno dei grandi vizi capitali che è l’Ira.

E il terzo e ultimo volto che vorrei presentarvi è naturalmente quello più solenne, più glorioso. Quello che abbiamo conosciuto attraverso la prima lettura: è il volto stesso di Dio. Quel volto che tra l’altro appare solo attraverso una voce che sale da fuoco di un roveto. È quella voce che dà una definizione, quella che è diventata famosa, che diventa proprio il suo nome, come avete sentito. Da un lato nell’ebraico abbiamo un’espressione minima, essenziale: ʾehyeh ʾašer ʾehyeh. Io sono colui che sono, si traduce. Ma è difficile da tradurre questa frase. È talmente il suo nome, che poi Dio dice a Mosè: «Così dirai agli israeliti: Io sono mi ha mandato a voi». Come vedete, è il nome di Dio. Un nome impronunciabile poi dopo, nell’interno della tradizione giudaica. La sua caratteristica è quella dell’avere un pronome personale in prima persona: Io sono. Io. Il Dio della Bibbia non è come il motore immobile di cui aveva parlato Aristotele. Freddo e impassibile. Colui che muove tutte le cose ma non muovendosi. Immoto, Dante lo dirà molto bene. Ma soprattutto è invece, potremmo dire così, un Dio patetico, cioè che prova pathos, come sono le persone, come siamo noi. Non per nulla nella Bibbia si parla anche della sua collera. Si parla persino, non solo dello suo sguardo, non solo della sua Parola, ma anche del suo braccio e della sua mano. Si parla persino dei suoi piedi. Si parla anche del suo naso. Perché in ebraico, la parola con cui si dice lo sdegno di fronte al male, di fronte al peccato si esprime con lo sbuffare delle narici. Abbiamo quindi in pienezza una figura personale. Ed è per questo che il Dio a cui noi ci rivolgiamo, come ha detto bene lo scrittore, non è un Dio del quale dobbiamo solo parlare. È un Dio al quale dobbiamo anche parlare. Ed è questo il significato della preghiera e della liturgia.

Questi sono i tre volti che volevo evocarvi. Volti che hanno una storia, un messaggio. Che non soltanto passano le nostre teste come tante volte accade quando si ascoltano forse dei discorsi remoti anche nelle omelie. Ma sono tre volti che in qualche modo, ora, sono presenti e ci interpellano.